sabato 11 settembre 2010

Varanasi e un "non compleanno"

Proprio in questo momento, un'amica è in viaggio verso casa dei suoi genitori. In questi giorni ricorre il compleanno di sua mamma. Sua mamma.

Per abitudine, in questo momento, non posso non fare una analogia col mio caso. Con me che una mamma non ce l’ho più. E non so quanto darei per poter festeggiare, anche solo in sogno, un suo compleanno. Per poter rivedere i suoi occhi felici della mia presenza accanto a lei, anche se, come sempre, incapace di dirlo.

Non è ancora un anno e mezzo da quando ha lasciato il corpo ed io, ancora, quotidianamente, vedo il mio pensiero correre al suo ricordo.

Succede quando sono in treno e ad una qualunque delle persone che mi sono accanto, squilla il telefono e loro rispondono “ciao ma', sì, sono in treno, sto rientrando ora…”.

Succede quando rientro a casa, a sera, dopo il lavoro, e avrei voglia di sbattere tutto via, giacca, borsa, chiavi… prendere il telefono e chiamare. E sentire la sua voce.

Succede quando sto cenando e squilla il telefono. Quando era lei a telefonare, aveva sempre la straordinaria capacità di chiamare mentre, stremato, consumavo la mia frugale cena. E io sbuffavo infastidito.

Che poi le telefonate non erano mai più che un patetico e triste mescolarsi di banalità tipo “Si, mangio, sto bene, il lavoro tutto a posto. Tu come stai? …”.

Chiamami ancora ma’. Disturbami mentre ceno. Dimmi ancora che non ti chiamo mai. Fammi sentire triste, a fine telefonata, per le parole vuote che ci siamo detti. Entrambi incapaci di dirci “ti voglio bene”.

Mi manca sai? - questa cosa che non ci siamo mai detti. E vorrei poter rimediare.

Guardavo le sue mani che stuzzicavano insolenti una rosa finta
ed era così dolce il modo in cui
nascondeva l'imbarazzo
mentre parlava e sorrideva ironicamente
delle proprie sventure teneva gli occhi bassi.
Guardavo le sue mani che si intrecciavano
tra i ricami di una tovaglia
riuscivo a stento a trattenere la voglia
di afferrarle di aggredire il suo dolore
misto all'incenso il sapore di un pasto frugale
i ricordi storditi dal tempo
pur essendo simile a tante e tante altre persone
era speciale
(14 luglio - Carmen Consoli)

Ma’, tra febbraio e marzo di quest’anno sono stato in India. A Varanasi.

Varanasi è la città più sacra alla parte induista dell’India. È la città dei Ghat, del Gange, di Shiva, dove è impossibile restare osservatori impassibili, vista l’atmosfera satura di spiritualità che si respira ovunque, in mezzo all’odore acre delle pire funebri. Non si può non venire rapiti dal movimento di chi lavora alla cremazioni dei corpi. Dalla teatrale ripetizione dei loro gesti. Rapiti da una sensazione di rispetto che non è lo stesso che proviamo qui, in occidente, dinanzi alla morte. Cala il silenzio interiore in mezzo ai continui stramazzi della folla. Lo sguardo si perde nel vuoto contemplando le fiamme che avvolgono i corpi. È una scena assurdamente “non triste”. Ma pregna di fede. Qui si può osservare tutto, fin nei più piccoli dettagli.



Secondo gli induisti è l’unico posto al mondo in cui gli dei permettono di liberarsi del ciclo morte e rinascita. Ed è qui, in questa città, nel corso di secoli, che tantissimi indù scelgono di venire a morire. Ed è qui che vogliono che vengano sparse le proprie ceneri. In riva al sacro fiume Gange.I cortei funerari qui a Varanasi sono così diversi da quelli cui siamo abituati a pensare. Non c’è tristezza o dolore percepibile nei volti delle persone. I cortei avanzano a passo di marcia, mentre qualcuno grida, nella lingua locale, “Il nome di Dio è verità” e tutti rispondono “verità, verità”.

A Varanasi, la vita e la morte sono viste come una cosa sola. Il fuoco che brucia i corpi arde costantemente. Non c’è via di scampo. Non si sfugge. Si brucia. Ma non è l’atto finale. Dopo questo ardere, dopo questo fuoco, si ricomincia. Si rinasce. Si muore. Si rinasce. Non è il fuoco finale.

Ma’, a Varanasi ho imparato a vivere la tua scomparsa con il distacco che mi permette di vivere giorno per giorno. Mi manchi, ma devo andare avanti. Continuerò a pensare e a sognare di vederti varcare la porta di casa mia, ma dovrò farlo col sorriso, per via della bella immagine che mi si affaccia alla mente, e non con le lacrime e la tristezza.

E forse già oggi, proprio in questo momento, tu sei un tenero infante tra le braccia della sua mamma innamorata della proprio creatura. Non parli, non cammini ancora. Quando inizierai a farlo, non sprecare abbracci e parole d’affetto per i tuoi genitori. Non commettere il tuo stesso, e il mio, errore di questa vita.

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