domenica 27 marzo 2011

È scoppiata la guerra?

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“È scoppiata la guerra. Occhio perché hai ancora l’età per essere richiamato alle armi”. Ho sorriso a questa battuta che mi hanno fatto al lavoro. In pochi secondi è ripartito il film nella mia mente.

Un film che a lungo in passato si è ripetuto dietro il velo dei miei occhi chiusi. Un film che trae ispirazione da una lunga ed eccezionale digressione di Alessandro Baricco sull’Iliade. Alessandro Baricco e l’Iliade, due parti di quella letteratura che amo molto. Un film che mi ha fatto rivedere e capire la luce negli occhi di mio nonno quando mi parlava della guerra cui anche lui ha partecipato.

E dunque facciamo una nuova guerra. E quando dico facciamo, non intendo noi italiani o francesi o libici ecc. Intendo noi essere umani. E dunque un’altra guerra si aggiunge al numero di quelle che ogni giorno si combattono sul nostro pianeta. Qual era il numero di  guerre che è necessario si combattano ogni giorno perché l’economia si possa mantenere viva?

Di tanto in tanto, apro a caso l’Iliade e rileggo alcuni brani di questa opera così odiata e amata. Frequentando un istituto tecnico, non ho avuto la fortuna di studiare questo testo ai tempi della scuola. E forse è un bene perché probabilmente mi sarebbe entrato nel cuore con un sentimento di repulsione. Invece l’Iliade descrive nel particolare esperienze e gesti della nostra stessa vita quotidiana. Più di 2000 anni son passati e ancora è possibile  riconoscere le stesse dinamiche di molti dei nostri gesti quotidiani.

Ai tempi in cui venne scritta l’Iliade, i greci avevano un grosso problema: essi non sapevano leggere e scrivere e dunque, a causa di questo grave handicap, non sapevano come tramandare la cultura, la conoscenza. La soluzione che si erano inventati era la trasmissione orale in forma di racconti, generalmente resi più interessanti mediante l’uso di speciali e sottili strumenti finalizzati a catturare l’attenzione dell’ascoltatore. “Ingannavano” l’ascoltatore parlando di storia, di arte, di poesia, di musica ma, ben nascosta in esse, era l’informazione che intendevano trasmettere. Così è anche l’Iliade. Ben nascosti dietro la storia di Achille ci sono insegnamenti che per la civiltà greca erano essenziali. L’Iliade è paragonabile ad una sorta di enciclopedia, “raccontata” per essere meglio ricordata. Nell’Iliade ci sono insegnamenti quali il modo giusto di costruire uno scudo, di ormeggiare una nave,  il modo in cui dire a una donna che non la sia ama più. Vi si insegna come lanciare una spada, come tosare le pecore e persino quel che bisogna fare durante i riti. Ci sono inoltre le leggi e l’etica che bisognava rispettare. In sostanza vi si insegnava il modo di fare le cose.

Naturalmente l’Iliade, scritta da una civiltà guerriera, è anche un monumento alla guerra. Traspare, ripetuto in modo quasi ossessivo, il tratto della bellezza della guerra. Sono descritte come belle le armi, le vesti che si indossavano in combattimento, gli scudi. Tutto quel che era riconducibile alla guerra era considerato bello. Il messaggio d’amore per la guerra, che è nell’Iliade, dovrebbe essere considerato e analizzato con estrema attenzione. Per i greci la guerra era il momento in cui la vita quotidiana, che scorreva generalmente piatta e vuota di momenti di vere emozioni, finalmente offriva delle opportunità per misurarsi con se stessi e col mondo. Una vita generalmente piatta offriva l’opportunità di vivere con assoluta intensità.

So bene che leggere la violenza riportata in quelle pagine e sentire delle guerre attorno a noi ci da fastidio e ci sgomenta. Succede costantemente anche a me. 

Eppure noi non siamo diversi dai greci dell’Iliade, noi siamo figli di quella stessa credenza. Abbiamo ereditato l’idea che la guerra fosse l’occasione in cui la vita quotidiana, anche per noi anemica e avara di emozioni, potesse avere una svolta e donare qualcosa di forte. Ogni uomo, da sempre, vive con una idea, un’attesa, una speranza di intensità della vita e la guerra era un momento in cui tutto questo si rendeva possibile. Era un “luogo” in cui si andava a cercare la verità su se stessi. Con timore e naturalmente a prezzo della vita si cercava un mondo che potesse “muoversi”. Per moltissimo tempo la guerra ha rappresentato l’opportunità di cambiare status sociale, l’occasione per cercare fortuna, per vedere il mondo al di là dei confini della propria città, per scoprire l’amore (magari semplicemente quello che si provava con la separazione dalla quotidianità della vita matrimoniale). Per secoli abbiamo pensato che in guerra la vita avrebbe dato quel che noi cercavamo. Una più forte intensità.

Persino San Francesco è passato attraverso la guerra.

Ho sorriso della battuta che mi è stata fatta ripensando all’immagine degli italiani fotografati sorridenti col giornale in mano, con su scritto “È scoppiata la guerra”. Partirono tutti sorridenti. Non è poi così lontano nel tempo tutto ciò. Erano appena i nostri nonni.

E oggi? Oggi, forse, nella ricerca della pace dovremmo iniziare con l’ammettere quel che ci risulta così doloroso pensare. Abbiamo a lungo considerato la guerra un’opportunità di crescita individuale. Inutile negarlo. Bisogna ammetterlo perché bisognerebbe ricominciare proprio dal pensiero che la guerra è stata un punto chiave dell’esperienza umana. E se è davvero questo il motivo per cui, nel nostro piccolo, abbiamo amato fare la guerra, forse diventerà facile comprendere che non abbiamo più bisogno di andare in giro con un fucile per capire chi siamo. Realizzare che noi siamo capaci di un’altra bellezza dovrebbe essere il nostro compito primario. Tutti sappiamo che la guerra è brutta ed è dolorosa ma non basta più il nostro “generico” preferire la pace. Dovremmo costruire, giorno dopo giorno, pezzi di una bellezza maggiore, un mondo in cui si possa scoprire la verità di se stessi senza il bisogno di dover finire in trincea. Dovremmo inventarci, forse singolarmente, un modo in cui poter sentire la forza dei sentimenti nei momenti di gioia e, perché no, anche nei momenti di dolore.

Eppure qualche giorno fa chiacchieravo di queste cose, durante una pausa al lavoro, con altri tre colleghi. Si commentava la scelta dell’Italia di appoggiare l’attacco alla Libia, paese considerato amico. Si commentava la posizione del nostro paese durante lo sbarco americano nella Seconda Guerra Mondiale. Si faceva un’analogia tra i due episodi. Si sosteneva, in maniera piuttosto critica e plateale, che lo schierarci accanto agli americani e contro il nostro precedente alleato, la Germania, fosse un esempio di quanto gli italiani manchino di lealtà. Mi son chiesto e ho chiesto loro se cambiare fronte e schierarsi finalmente contro un folle significasse tradire. La risposta, in sostanza: I partigiani, dei terroristi, avrebbero dovuto rispettare la volontà del governo e quindi del popolo tutto e continuare a sostenere Hitler e la sua volontà di sterminare il popolo ebreo, un popolo di ladri dediti solo all’arricchimento a discapito degli altri.

Eravamo in quattro, uno sosteneva questa tesi e gli altri lo ascoltavano sorridendo. Siamo un popolo razzista e xenofobo?

Risparmio i giudizi espressi su arabi e musulmani e attuali ebrei, sulla loro cultura inconcepibile e dunque malata. Risparmio il giudizio espresso sul meridione d’Italia e sui suoi terroni (sono dieci anni che sento usare questa parola con la pretesa che non sia più offensiva perché entrata nel gergo quotidiano).

Forse la verità è che noi non siamo per niente pronti a pensare a una bellezza alternativa alla guerra quando persino Achille, nell’Iliade, a un certo punto, è tentato dal prendere la sua nave e tornare a casa, farsi la sua vita in pace, sposare una donna ecc. Per un attimo persino lui, l’incarnazione della guerra, ha visto un’altra chance di bellezza. In pace. Le donne nell’Iliade ripetono quasi costantemente che la vita può essere rovente anche in pace;  lo dicono e provano anche a dire, come farebbero le donne in Cent’anni di solitudine, “ci penso io”. Dovremmo forse lasciar fare solo a loro.


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