domenica 20 novembre 2011

Al posto giusto



"Io ero davanti a tutti e vidi, alla fine, là, davanti a me, le navi. I primi scafi neri, puntellati sulla terra, e poi, a perdita d’occhio navi, navi, navi fino alla spiaggia e al mare, migliaia di alberi e di chiglie, prue puntate verso il cielo fino a dove potevi guardare. Le navi. Nessuno può capire cosa è stata quella guerra per noi troiani senza immaginare il giorno in cui le vedemmo arrivare. Erano più di mille, in quel pezzo di mare che era nei nostri occhi fin da quando eravamo bambini, ma mai avevamo visto solcato da qualcosa che non fosse amico, e piccolo, e raro. Adesso era oscurato fino all’orizzonte da mostri venuti da lontano per annientarci. Io capisco che razza di guerra ho combattuto quando ripenso a quel giorno, e rivedo me, i miei fratelli, tutti i giovani maschi di Troia, vestirsi con le armi più belle, uscire dalla città, marciare nella pianura, e , giunti al mare, cercare di fermare quella flotta, terrorizzante, a colpi di pietra. Le pietre della spiaggia. Le tiravamo, capite? Mille navi, e noi con le nostre pietre.
Nove anni dopo, io mi ritrovai quelle navi negli occhi. Ma imprigionate a terra. E circondate da guerrieri terrorizzati, che con le braccia alzate pregavano il cielo, per non morire. C’è da stupirsi se dimenticai la mia ferita, il colpo di Aiace, la stanchezza, e la paura? Scatenai il mio esercito, ed esso divenne per quelle navi mare in tempesta, e immane ondata, e maroso scintillante. Scalavamo le chiglie, con le fiaccole in mano, per dar fuoco a tutto. Ma gli Achei si difendevano duramente. C’era Aiace, ancora lui. A incitarli e guidarli. Era a poppa, su una nave, e uccideva chiunque riuscisse a salire o anche solo ad avvicinarsi. Io puntai dritto contro di lui e quando fui abbastanza vicino mirai e sferrai la lancia. La punta di bronzo volò in alto ma mancò il bersaglio e colpì uno scudiero, Licofrone. Vidi Aiace rabbrividire. Poi gettare un’occhiata verso Teucro, senza smettere di combattere. Teucro era il migliore degli arcieri achei. Come se Aiace gli avesse impartito un ordine, prese dalla faretra una freccia, tese la corda dell’arco, e mirò dritto contro di me. Istintivamente alzai lo scudo, ma quel che vidi fu la corda di quell’arco spezzarsi, e la freccia cadere a terra, e Teucro, atterrito, rimanere di sasso. Sembrava davvero un segno degli dei. Un segno propizio, per me, e infausto per gli achei. Mi guardai attorno. Loro facevano scudo alle navi, combattevano stretti gli uni sugli altri, erano un muro di bronzo che ci teneva indietro. Cercavo il punto più debole, dove sfondare, ma non lo trovavo. E allora andai dove erano le armi più belle e lì attaccai, come un leone che attacca un gregge che nessun pastore potrà salvare. Mi guardavano con terrore, io schiumavo di rabbia, mi pulsavano le tempie sotto l’elmo splendente, mi guardavano e fuggivano, il muro di bronzo si aprì, li vidi correre verso le tende, per l’ultima difesa, alzai gli occhi e vidi le navi, proprio sopra di me, così vicine come mai le avevo viste. Era rimasto solo Aiace con pochi guerrieri, saltava da una nave all’alta, combattendo con un picca d’abbordaggio, la sua voce arrivava al cielo mentre con grida terribili chiamava gli altri Achei a combattere. Io scelsi una nave dalla prua azzurra. La attaccati dal lato di poppa, arrampicandomi fino alla tolda. Gli Achei si strinsero intorno a me. Non era più il momento delle lance o delle frecce, si combatteva corpo a corpo, era battaglia  di spade, pugnali, scuri affilate. Vedevo scorrere il sangue, a fiumi, giù dalla nave, fino a terra. Era quella la battaglia che avevo desiderato da sempre. Non la pianura aperta, non le mura di Troia, ma il fianco delle navi, di quelle navi, tanto odiate.

                ‘Achei, guerrieri, dove avete lasciato la vostra forza?’ Era la voce di Aiace. Lì sulla tolda, continuava a combattere e a gridare. ‘Perché fuggite?, credete che ci sia qualcosa dietro di voi dove andarvi a rifugiare?, c’è il mare dietro di voi, è qui che vi dovete salvare!’ 

Lo vedevo proprio sopra di me. Era coperto di sudore, ansimava, non riusciva più a respirare, e la stanchezza gli pesava sulle braccia. Alzai la spada e con un colpo secco gli spezzai la lancia, proprio sotto la punta; lui rimase lì, con l’asta di frassino, mozzata, in mano. In tutto quel fragore io sentii il suono della punta di bronzo che cadeva sul legno della tolda. E Aiace capì. Che quello era il mio giorno, e che gli dei erano con me. Indietreggiò, finalmente, lo fece, indietreggiò. E io salii su quella nave. E le diedi fuoco.

È in quelle fiamme che mi dovete ricordare. Ettore, lo sconfitto, lo dovete ricordare in piedi, sulla poppa di quella nave, circondato dal fuoco. Ettore, il morto trascinato da Achille per tre volte attorno alle mura della sua città, lo dovete ricordare vivo, e vittorioso, e splendente nelle sue armi d’argento e di bronzo. Ho imparato da una regina le parole che adesso mi sono rimaste e che voglio dire a voi: ricordatevi di me, ricordatevi di me e dimenticate il mio destino.”

(Omero, Iliade - Alessandro Baricco)

Al posto giusto. 

Ettore. Lo sconfitto. L’Iliade. Una storia raccontata da vincitori in cui tutti amano i vinti.

Io l’immagino la scena: Ettore. Con le navi negli occhi. In una bell’alba di sole che lentamente, anziché salire in alto nel cielo, viene oscurato dalle navi che si avvicinano a riva. E i troiani, tutti, con le pietre in mano. 

E poi di nuovo Ettore. Con le navi negli occhi. Nove anni dopo. Vestito della sua armatura e consapevole che quello sarebbe stato il suo giorno. 

Ettore. Solo. 

Solo per un attimo sente spegnersi il frastuono della battaglia attorno a se per sentire il suono della fiaccola che cade sul legno della tolda a incendiare la nave. 

Ettore.

Quel giorno deve essersi sentito davvero al posto giusto. Quel giorno doveva essersi sentito l’uomo più forte sulla spiaggia. Magari sapeva pure che da lì a poco comunque sarebbe morto, ma questo non importava. 
Quel giorno, lui, era al posto giusto. Felice.

Tra quelle braccia, stretto a se come nessuno mi aveva stretto mai, pelle contro pelle, mi sono sentito anche io al posto giusto. Per un giorno. Come mai era successo. Stretti forte. 
Nella morsa che ci univa eravamo noi mare in tempesta. Immane ondata e maroso scintillante. Uniti in uno spasimo di passione, gioia e lacrime silenziose e invisibili. Amore puro e puro desiderio di donare Amore.

Questo deve essere l'Amore vero: lacrime. Il bisogno di piangere.

Ho provato spesso a immaginare la scena vista dal di fuori. Ma nessuno può capire cosa è stato per me quell’abbraccio senza immaginare, senza conoscere quel 'pezzo di mare' che è nei miei occhi fin da quando ero bambino. Senza conoscere qualcuno che non sia amico, e piccolo, e raro. Nessuno può capire cosa è stato per me quell’abbraccio senza conoscere la brama di conoscere Dio, la Madre, e provare il suo abbraccio. 

Senza immaginarsi prostrato ai Suoi sacri piedi, al posto giusto.

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